Su Il Giornale di oggi è apparsa questa intervista al Prefetto della Congregazione per il Culto Divino (nella foto). Leggendo tra le righe, ma nemmeno troppo, di queste belle e condivisibili parole, ci colpisce un fatto: la riforma della riforma, intesa nel senso di provvedimenti romani autoritativi miranti a riaggiustare un po' la liturgia (la cui crisi non viene più negata, e il cui rimedio nella Tradizione è chiaramente indicato: almeno questo...), non vedrà la luce. Dovrà in sua vece sorgere un 'nuovo movimento liturgico'. Tradotto in italiano: noi in Vaticano non possiamo far niente di concreto se non dare incoraggiamenti e begli esempi; s'arrangino preti e laici sul campo. In fondo, noi siamo realisti e lo sapevamo: troppe, troppo potenti e troppo radicate le mentalità attaccate come sanguisughe al "magnifico rinnovamento conciliare" sbandierato da quarant'anni. E il Papa non può combattere quelle mentalità con i carabinieri. Ma quest'intervista di Canizares, sinceramente, ci sembra un po' una capitolazione senza nemmeno l'onore delle armi.


di Andrea TORNIELLI

La liturgia cattolica vive «una certa crisi» e Benedetto XVI vuole dar vita a un nuovo movimento liturgico, che riporti più sacralità e silenzio nella messa, e più attenzione alla bellezza nel canto, nella musica e nell’arte sacra. Il cardinale Antonio Cañizares Llovera, 65 anni, Prefetto della Congregazione del culto divino, che quando era vescovo in Spagna veniva chiamato «il piccolo Ratzinger», è l’uomo al quale il Papa ha affidato questo compito. In questa intervista al Giornale, il «ministro» della liturgia di Benedetto XVI rivela e spiega programmi e progetti.

- Da cardinale, Joseph Ratzinger aveva lamentato una certa fretta nella riforma liturgica postconciliare. Qual è il suo giudizio?
«La riforma liturgica è stata realizzata con molta fretta. C’erano ottime intenzioni e il desiderio di applicare il Vaticano II. Ma c’è stata precipitazione. Non si è dato tempo e spazio sufficiente per accogliere e interiorizzare gli insegnamenti del Concilio, di colpo si è cambiato il modo di celebrare. Ricordo bene la mentalità allora diffusa: bisognava cambiare, creare qualcosa di nuovo. Quello che avevamo ricevuto, la tradizione, era vista come un ostacolo. La riforma è stata intesa come opera umana, molti pensavano che la Chiesa fosse opera delle nostre mani, invece che di Dio. Il rinnovamento liturgico è stato visto come una ricerca di laboratorio, frutto dell’immaginazione e della creatività, la parola magica di allora».

- Da cardinale Ratzinger aveva auspicato una «riforma della riforma» liturgica, parole oggi impronunciabili persino in Vaticano. Appare però evidente che Benedetto XVI la desideri. Può parlarcene?
«Non so se si possa, o se convenga, parlare di “riforma della riforma”. Quello che vedo assolutamente necessario e urgente, secondo ciò che desidera il Papa, è dar vita a un nuovo, chiaro e vigoroso movimento liturgico in tutta la Chiesa. Perché, come spiega Benedetto XVI nel primo volume della sua Opera Omnia, nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa. Cristo è presente nella Chiesa attraverso i sacramenti. Dio è il soggetto della liturgia, non noi. La liturgia non è un’azione dell’uomo, ma è azione di Dio».

- Il Papa più che con le decisioni calate dall’alto, parla con l’esempio: come leggere i cambiamenti da lui introdotti nelle celebrazioni papali?
«Innanzitutto non deve esserci alcun dubbio sulla bontà del rinnovamento liturgico conciliare, che ha portato grandi benefici nella vita della Chiesa, come la partecipazione più cosciente e attiva dei fedeli e la presenza arricchita della Sacra Scrittura. Ma oltre a questi e altri benefici, non sono mancate delle ombre, emerse negli anni successivi al Vaticano II: la liturgia, questo è un fatto, è stata “ferita” da deformazioni arbitrarie, provocate anche dalla secolarizzazione che purtroppo colpisce pure all’interno della Chiesa. Di conseguenza, in tante celebrazioni, non si pone più al centro Dio, ma l’uomo e il suo protagonismo, la sua azione creativa, il ruolo principale dato all’assemblea. Il rinnovamento conciliare è stato inteso come una rottura e non come sviluppo organico della tradizione. Dobbiamo ravvivare lo spirito della liturgia e per questo sono significativi i gesti introdotti nelle liturgie del Papa: l’orientamento dell’azione liturgica, la croce al centro dell’altare, la comunione in ginocchio, il canto gregoriano, lo spazio per il silenzio, la bellezza nell’arte sacra. È anche necessario e urgente promuovere l’adorazione eucaristica: di fronte alla presenza reale del Signore non si può che stare in adorazione».

- Quando si parla di un recupero della dimensione del sacro c’è sempre chi presenta tutto questo come un semplice ritorno al passato, frutto di nostalgia. Come risponde?
«La perdita del senso del sacro, del Mistero, di Dio, è una delle perdite più gravi di conseguenze per un vero umanesimo. Chi pensa che ravvivare, recuperare e rafforzare lo spirito della liturgia, e la verità della celebrazione, sia un semplice ritorno a un passato superato, ignora la verità delle cose. Porre la liturgia al centro della vita della Chiesa non è affatto nostalgico, ma al contrario è la garanzia di essere in cammino verso il futuro».

- Come giudica lo stato della liturgia cattolica nel mondo?
«Di fronte al rischio della routine, di fronte ad alcune confusioni, alla povertà e alla banalità del canto e della musica sacra, si può dire che vi sia una certa crisi. Per questo è urgente un nuovo movimento liturgico. Benedetto XVI indicando l’esempio di san Francesco d’Assisi, molto devoto al Santissimo Sacramento, ha spiegato che il vero riformatore è qualcuno che obbedisce alla fede: non si muove in modo arbitrario e non si arroga alcuna discrezionalità sul rito. Non è il padrone ma il custode del tesoro istituito dal Signore e consegnato a noi. Il Papa chiede dunque alla nostra Congregazione di promuovere un rinnovamento conforme al Vaticano II, in sintonia con la tradizione liturgica della Chiesa, senza dimenticare la norma conciliare che prescrive di non introdurre innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità per la Chiesa, con l’avvertenza che le nuove forme, in ogni caso, devono scaturire organicamente da quelle già esistenti».

- Che cosa intendete fare come Congregazione?
«Dobbiamo considerare il rinnovamento liturgico secondo l’ermeneutica della continuità nella riforma indicata da Benedetto XVI per leggere il Concilio. E per far questo bisogna superare la tendenza a “congelare” lo stato attuale della riforma postconciliare, in un modo che non rende giustizia allo sviluppo organico della liturgia della Chiesa. Stiamo tentando di portare avanti un grande impegno nella formazione di sacerdoti, seminaristi, consacrati e fedeli laici, per favorire la comprensione del vero significato delle celebrazioni della Chiesa. Ciò richiede un’adeguata e ampia istruzione, vigilanza e fedeltà nei riti e un’autentica educazione per viverli pienamente. Questo impegno sarà accompagnato dalla revisione e dall’aggiornamento dei testi introduttivi alle diverse celebrazioni (
prenotanda). Siamo anche coscienti che dare impulso a questo movimento non sarà possibile senza un rinnovamento della pastorale dell’iniziazione cristiana».

- Una prospettiva che andrebbe applicata anche all’arte e alla musica...
«Il nuovo movimento liturgico dovrà far scoprire la bellezza della liturgia. Perciò apriremo una nuova sezione della nostra Congregazione dedicata ad “Arte e musica sacra” al servizio della liturgia. Ciò ci porterà a offrire quanto prima criteri e orientamenti per l’arte, il canto e la musica sacri. Come pure pensiamo di offrire prima possibile criteri e orientamenti per la predicazione».

- Nelle chiese spariscono gli inginocchiatoi, la messa talvolta è ancora uno spazio aperto alla creatività, si tagliano persino le parti più sacre del canone: come invertire questa tendenza?
«La vigilanza della Chiesa è fondamentale e non deve essere considerata come qualcosa di inquisitorio o repressivo, ma un servizio. In ogni caso dobbiamo rendere tutti coscienti dell’esigenza, non solo dei diritti dei fedeli, ma anche del “diritto di Dio”».

- Esiste anche il rischio opposto, cioè quello di credere che la sacralità della liturgia dipenda dalla ricchezza dei paramenti: una posizione frutto di estetismo che sembra ignorare il cuore della liturgia
«La bellezza è fondamentale, ma è qualcosa di ben diverso da un’estetismo vuoto, formalista e sterile, nel quale invece talvolta si cade. Esiste il rischio di credere che la bellezza e la sacralità del liturgia dipendano dalla ricchezza o dall’antichità dei paramenti. Ci vuole una buona formazione e una buona catechesi basata sul Catechismo della Chiesa cattolica, evitando anche il rischio opposto, quello della banalizzazione, e agendo con decisione ed energia quando si ricorre a usanze che hanno avuto il loro senso nel passato ma oggi non ce l’hanno o non aiutano in alcun modo la verità della celebrazione».

- Può dare qualche indicazione concreta su che cosa potrebbe cambiare nella liturgia?
«Più che pensare a cambiamenti, dobbiamo impegnarci nel ravvivare e promuovere un nuovo movimento liturgico, seguendo l’insegnamento di Benedetto XVI, e ravvivare il senso del sacro e del Mistero, mettendo Dio al centro di tutto. Dobbiamo dare impulso all’adorazione eucaristica, rinnovare e migliorare il canto liturgico, coltivare il silenzio, dare più spazio alla meditazione. Da questo scaturiranno i cambiamenti...».

Reforma de la reforma: es tiempo de actuar siguiendo el ejemplo del Papa

Presentamos nuestra traducción de una entrevista a Mons. Nicola Bux, publicada por “Tempi”, en la que condensa los principales elementos de la así llamada “reforma de la reforma” impulsada por Benedicto XVI.

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“De esta forma, también se impide que puedan «los fieles puedan revivir de algún modo la experiencia de los dos discípulos de Emaús: entonces se les abrieron los ojos y lo reconocieron»”. He aquí explicado de manera admirable de qué se habla cuando se habla de mala liturgia. La cita está tomada de Redemptionis Sacramentum, documento fuertemente querido por Juan Pablo II.

Quedan pocos ya que nieguen que, en campo litúrgico, los documentos oficiales del Concilio Vaticano II hayan sido sustituidos en forma abusiva por un invasivo “espíritu del Concilio”. Dos ejemplos: el canto gregoriano y el latín, el uso de los cuales estaba indicado entre las “consignas” litúrgicas más importantes del Concilio. No se entiende bien cómo, en la práctica, como se sabe, todo se ha desvanecido. “Efectivamente muchos se preguntan cómo ha sucedido esto”, dice a Tempi el teólogo don Nicola Bux.

“Es una página que todavía debe ser aclarada. Los hechos son estos: Pablo VI constituyó el Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, con la tarea de «ejecutar» lo que estaba en la Constitución conciliar Sacrosanctum Concilium. Sobre esta ejecución ha ocurrido luego de todo porque, confrontando con la letra del texto y las aplicaciones sucesivas, aparecen diferencias notables. Tomemos el gregoriano. En el número 116 de la Sacrosanctum Conciliumse lee que la Iglesia lo reconoce como «el canto propio de la liturgia romana» y como tal le reserva «el puesto principal». Ahora bien, «canto propio» es una expresión específica. Significa que el gregoriano es una sola cosa con el rito latino. Eliminar el canto propio es como rasgar la piel de una persona. Eso es lo que se ha hecho”. La razón alegada es que no se lo sabría cantar. “Pero esto es un problema falso”, explica el teólogo. “Si pensamos en cuántos motetes canta la gente sólo porque han sido custodiados y perpetuados: la Salve Regina, el Kyrie… Y luego, ¿basta realmente que el canto sea en italiano para que la gente cante?”.

La misma Iglesia en todo el mundo

Los biógrafos concuerdan en que la fascinación ejercida por el catolicismo sobre conversos como Newman, Benson y Chesterton, fue debida también a aquel universalismo de la liturgia latina que todavía hoy juega un rol importante en el persuadir a muchos anglicanos a llamar a la Iglesia de Roma. Ahora bien, además del gregoriano, ciertos encubrimientos han concernido también al latín. Y, sin embargo, laSacrosanctum Concilium en el n. 36 prescribe expresamente: “El uso de la lengua latina, salvo derechos particulares, sea conservado en los ritos latinos”. “Traducir las lecturas a las lenguas habladas – sostienen don Bux – ha sido algo bueno, debemos entenderla. Pero el Papa ha añadido que «una presencia más marcada de algunos elementos latinos ayudaría a dar una dimensión universal, a hacer que en todas partes del mundo se pueda decir: yo estoy en la misma Iglesia». Al menos en la plegaria eucarística y en la colecta el latín debería volver. Entre otras cosas, Pablo VI estableció que los misales nacionales fuesen publicados siempre bilingües, italiano y latín. Para permitir en todo momento la celebración en latín, para tener entrenados a los sacerdotes, y finalmente porque el italiano cambia y las traducciones, a menudo verdaderas interpretaciones, tienden cada vez más a traicionar. Hay una carta del Papa que lo prescribía: no le han obedecido”.

La liturgia es sagrada si tiene sus reglas. Y si por un lado, el ethos, es decir, la vida moral, es un elemento claro para todos, por otro lado se ignora casi totalmente que existe también unius divinum, un derecho de Dios a ser adorado. Don Bux dice: “Se dice: Dios, aún si existe, con mi vida no tiene nada que ver. En cambio, Dios tiene que ver con todo. «Todo me pertenece», se lee en las Escrituras, también la vida del director Monicelli le pertenecía. Atención, porque el Señor es celoso de sus competencias y el culto, más que nada, le es propio. En cambio, precisamente en campo litúrgico estamos frente a unaderegulation”. Para subrayar cómo sin ius y ethos el culto se vuelve necesariamente idolátrico, en su recientísimo libro (“Cómo ir a Misa y no perder la fe”), don Nicola Bux cita un pasaje de “Introducción al espíritu de la liturgia” de Joseph Ratzinger. Escribe Ratzinger: “En apariencia, todo está en orden y presumiblemente también el ritual procede según las prescripciones. Y, no obstante, hay una caída en la idolatría (…), se hace descender a Dios al propio nivel reduciéndolo a categorías de visibilidad y comprensibilidad”. Y todavía: “Se trata de un culto hecho por propia autoridad(…), se convierte en una fiesta que la comunidad se hace a sí misma; celebrándola, la comunidad no hace más que confirmarse a sí misma”. El resultado es irremediable: “De la adoración a Dios se pasa a un círculo que gira en torno a sí mismo: comer, beber, divertirse”. Un efecto dominó.

Es fundamental notar – escribe don Bux – que “la caricatura de lo divino en aspecto bestial” es un claro indicio del hecho de que “el trastorno del culto arrastra consigo al arte sacro”. Es difícil no pensar en la arquitectura de tantas iglesias modernas. Decaimiento que concierne también a la música y las vestiduras, visto que en torno al becerro de oro se cantaba y danzaba de modo profano. En resumen, está todo vinculado a la liturgia. No por nada en su autobiografía (“Mi vida”) Ratzinger declaraba solemnemente: “Estoy convencido de que la crisis eclesial en la que hoy nos encontramos depende en gran parte del derrumbe de la liturgia”.

Un gesto de ecumenismo

Fácilmente, frecuentando la Misa por diez domingos en parroquias diversas, parecería asistir a diez diferentes liturgias. Y si es cierto que católico significa universal, hay algo que tal vez no va. Y sin embargo, la encíclica Ecclesia de Eucaristía había sido clarísima: “La liturgia no es nunca propiedad privada de nadie, ni del celebrante, ni de la comunidad”. La tesis de don Bux es que como ayuda para la liturgia podría servir aquel Motu Proprio Summorum Pontificum que, en el 2007, liberalizó la forma extraordinaria del rito latino. Para el teólogo, “las dos formas del rito pueden enriquecerse mutuamente, precisamente a partir de este clima religioso de misterio, el Sitz im Leben, el ambiente vital donde es posible encontrar a Dios”. ¿Pero se puede hacer ya un primer balance del Motu proprio? Don Bux responde así: “Una semana atrás estuve en París. La Misa que, ante un pedido, celebré en la forma extraordinaria estaba llenísima de jóvenes. El párroco de Sainte-Clotilde me decía que celebra tranquilamente con los dos ritos, sin ningún problema. La verdad es que deberíamos todos liberarnos de esta deletérea contraposición entre antiguo y nuevo rito. Nuestro amado Papa anima y desea la continuidad. Y celebrar tanto en la forma ordinaria como en la extraordinaria significa poner en práctica esta continuidad de la Iglesia. ¡Sigámoslo!”.

No se puede ocultar, sin embargo, que son muchos quienes boicotean el Motu proprio. Para todos, el antiguo obispo de Sora, Luca Brandolini, que ante la noticia de la liberalización del rito extraordinario confió a La Repubblica haber llorado por aquel “día de luto”. Y sin embargo, en una perspectiva ecuménica, la liberalización de la Misa antigua es un paso hacia delante. “Lo ha demostrado – añade don Bux – el difunto patriarca de Moscú Alejo II, el cual aplaudió el Motu proprio con palabras clarísimas: «El Papa ha hecho bien. Todo lo que es recuperación de la tradición acerca a los cristianos entre ellos»”.

Según el teólogo, “el movimiento de jóvenes creado en torno al rito antiguo está en fuerte crecimiento”. Pero ninguno, especialmente si ha nacido entre los años setenta y ochenta, puede ser “tradicionalista” en nombre de la nostalgia por los bellos tiempos que fueron. “Muchos jóvenes piden una sola cosa: encontrar lo sagrado. Esta es la razón del éxito de la Misa gregoriana. Ignorar este pedido, que tiene un contorno totalmente espiritual y para nada ideológico (como, por el contrario, se querría hacer creer), es al menos contradictorio para quien, por definición, debería «episcopein», es decir, observar, escrutar”. La situación es paradójica: “Se ha hecho de todo para renovar la liturgia y atraer a los jóvenes, y ahora precisamente ellos no se sienten atraídos. Es un hecho que con la forma extraordinaria del rito no pocos de ellos logran adorar más al Señor. La liturgia sirve para dar al Señor la alabanza y la adoración justa. Una liturgia que no pone en el primer puesto al Señor es una ficción, y ellos no se dan cuenta de esto. Cuando los sacerdotes rezan la plegaria eucarística (es decir, el momento culminante de la Misa, el de Su Sacrificio por nosotros) girando la mirada sobre el pueblo en lugar de mirar a la Cruz frente a ellos, se vuelve entonces claro que no están hablando con el Señor, no están dirigidos a Él. Y esto no deja de tener consecuencias: los fieles serán llevados a distraerse, en perjuicio de la participación”.

Pero qué “espaldas al pueblo”

Está naciendo un movimiento litúrgico nuevo que dirige la mirada al modo de celebrar de Benedicto XVI. “Lo más importante que el Papa quiere hacernos comprender – dice don Bux – es la orientación del sacerdote, de su mirada sobre todo. «Allí donde la mirada sobre Dios no es determinante, toda otra cosa pierde su orientación», escribe magníficamente Benedicto XVI, y este es el nudo de la cuestión: la correcta orientación”. Parece, por lo tanto, haber llegado a un nudo riesgoso: “«Levantemos el corazón. Lo tenemos levantado hacia el Señor»: lo decimos pero no lo hacemos. Si el sacerdote mirara la cruz, o el tabernáculo, habría para los fieles un efecto fuertísimo. Si precisamente desde el ofertorio hasta la Comunión el sacerdote no quiere estar dirigido ad Dominum, es decir, hacia Oriente, tenga al menos la Cruz en el centro delante de sí”. Si miras bien, esto sería posible también con los nuevos altares, por lo que sin volver a destruir nada (hemos asistido ya a la insensata demolición de muchos altares antiguos y bellos), bastaría poner sobre el altar la cruz y volverse hacia ella. Exactamente como hace Benedicto XVI, que interpone la cruz entre él y los fieles, una cruz bien visible”. En el fondo, Ratzinger tenía en mente precisamente esto cuando se lamentaba de que “el sacerdote dirigido al pueblo da a la comunidad el aspecto de un todo cerrado en sí mismo”. Sin embargo – se objeta -, dar las espaldas al pueblo o incluso sólo interponer la cruz sobre el altar hace venir a menos el sentido de convite. “Conozco la objeción: es la idea de Misa-banquete que desde las «comunidades de base de los años setenta» se resiste a morir. Por esto fue acuñada la expresión «Misa de espaldas al pueblo». ¿Realmente puede pensarse que las espaldas al pueblo del sacerdote harían perder el sentido de comunión? Pero la comunión, para ser tal, ¿no debe venir antes desde lo alto? ¿Realmente el misterio de la comunión eclesial se resuelve mirando a la asamblea?”, comenta don Bux.

Los extraños intentos de Bugnini

Está luego la lección silenciosa de Benedicto XVI sobre la Comunión dada en la boca y de rodillas. “Una actitud de reverencia – observa el teólogo púgiles – que hace más lenta la procesión de Comunión y hace más consciente del gesto. Teniendo siempre claro que la Comunión sobre la meno es un gesto permitido por un indulto, es decir, un acto de duración limitada, que en cambio se ha convertido en regla”. Don Bux añade: “Hoy también el tabernáculo se ha convertido en «signo de conflicto». ¿Cómo no comprender que si el tabernáculo no está ya en el centro, tampoco será considerado ya como el centro?”. De aquí su propuesta a los sacerdotes: un intercambio tabernáculo – sede sacerdotal en el centro del presbiterio. “La gente volverá a creer en el Santísimo Sacramento; nosotros, los sacerdotes, ganaríamos en humildad; y al Señor será restituido el lugar que le corresponde”.

Volviendo al Concilio “traicionado”, Annibale Bugnini, indiscutido protagonista de la reforma litúrgica, declaraba tranquilamente a L’Osservatore Romano: “Debemos quitar de nuestras plegarias católicas y de la liturgia católica todo lo que pueda ser la sombra de una piedra de tropiezo para nuestros hermanos separados, es decir, los protestantes”. Incluso más allá de su discutida pertenencia masónica sobre la que tanto se ha escrito (entre otros, por el vaticanista Andrea Tornielli en 30Giorni), la verdadera pregunta es si un intento como el mencionado ha sido insignificante respecto a la situación en que hoy se encuentra la liturgia, es decir, a lo que Benedicto XVI llama “deformaciones al límite de lo soportable”. “De sus responsabilidades – afirma don Bux -, Annibale Bugnini responderá al Señor. Una ayuda para entender la reforma puede llegar del libro de Nicola Giampietro que contiene el testimonio del cardenal Ferdinando Antonelli, autorizado protagonista de aquel Consilium encargado de ejecutar los documentos de la reforma. Antonelli ha escrito cosas decididamente fuertes sobre el clima que había en ese Consilium del que Bugnini era el factotum y también sobre el rol de aquellos seis expertos protestantes que tuvieron una función bastante mayor que la de simples observadores. Ciertamente serviría publicar los diarios secretos de Annibale Bugnini. Aunque sólo sea para una mayor comprensión de qué ha sido realmente la reforma litúrgica post-conciliar”.

Fonte: Buhardilla de Jeronimo


Il mistero del Natale

ROMA, mercoledì, 22 dicembre 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito una riflessione di don Enrico Finotti, parroco di S. Maria del Carmine a Rovereto (Trento), che apparirà prossimamente sulla rivista di formazione liturgica “Liturgia ‘culmen et fons’”.

* * *

1. Il Natale e l’Epifania: due aspetti dell’unico mistero

La celebrazione del mistero natalizio poggia sulle due solennità del Natale e dell’Epifania, l’una di origine occidentale (Natale), l’altra di origine orientale (Epifania), che mettono in luce, in modo complementare, la ricchezza del mistero dell’Incarnazione del Verbo.[1] La prima celebra il fatto storico [2] della nascita di Gesù a Betlemme, si china con stupore sul Dio che si è fatto uomo, evidenzia in tutta la sua verità la natura umana del Figlio di Dio “in tutto simile a noi, fuorchè nel peccato”. La seconda, conformemente al genio contemplativo dell’Oriente, celebra la manifestazione di Dio che si rivela nel tempo ed entra nella storia. Pone l’accento sulla natura divina [3]del “Dio fatto uomo”, che mette in fuga le tenebre del mondo e lo inonda di un fulgore celeste.[4] Il Natale annunzia il compimento delle profezie fatte ai Padri e la fedeltà di Dio alle antiche promesse del Redentore. Il Cristo è venuto anzitutto per il suo popolo: Maria, Giuseppe, i pastori, Simeone ed Anna, rappresentano il “resto” fedele d’Israele, che attendeva nella speranza. L’Epifania proclama che il Messia e la sua salvezza è per tutti i popoli [5], di cui i Magi sono la primizia.[6] Nel rapporto tra il Natale e l’Epifania è anticipato il mistero che si realizzerà pienamente nella Pasqua e nella Pentecoste. In tal modo le due solennità celebrano con accenti diversi, ma complementari, il mistero del Cristo vero Dio e vero uomo e insieme annunziano che la sua salvezza è “per il suo popolo e per i suoi fedeli” (Sal 84, 9), ma anche per tutte le genti, per coloro che lo “cercano con cuore sincero”[7] “e ritornano a lui con tutto il cuore” (Sal 84, 9).

2. Il “mirabile scambio”

Nei Primi Vespri dell’ottava del s. Natale la prima antifona canta: “Meraviglioso scambio! Il Creatore ha preso un’anima e un corpo, è nato da una vergine; fatto uomo senza opera d’uomo, ci dona la sua divinità”. E il Prefazio III di Natale proclama: “In lui oggi risplende in piena luce il misterioso scambio che ci ha redenti: la nostra debolezza è assunta dal Verbo, l’uomo mortale è innalzato a dignità perenne e noi, uniti a te in comunione mirabile, condividiamo la tua vita immortale”. “Tema centrale del Natale è il “mirabile scambio”, per cui Dio prende ciò che è nostro e ci dà ciò che è suo. “Dio aveva un Figlio e ne ha fatto il figlio dell’uomo e, in cambio, di un figlio dell’uomo ha fatto un figlio di Dio” (s. Agostino). La possibilità inaudita che ci è ormai offerta: Conoscere Dio vedendolo. Ciò corrisponde a un desiderio ardente, antico quanto l’uomo: vedere Dio. Mosè l’aveva chiesto e si è sentito rispondere: “Nessuno può vedere Dio senza morire”. Filippo ha espresso a Gesù lo stesso desiderio, e si è sentito rispondere: “Chi vede me vede il Padre”. Il desiderio è esaudito, perchè Cristo, nostro fratello come uomo, è l’immagine perfetta del Padre, “splendore della sua gloria”.[8]

3. Le nozze regali tra Dio e il suo popolo

La liturgia natalizia propone in modo insistente anche il tema della “sponsalità”. Dio è lo Sposo del suo popolo e l’incarnazione è la celebrazione nuziale delle nozze tra Dio e l’umanità. Infatti nella 1a lettura della Messa vigiliare del Natale si legge: “La tua terra sarà chiamata “sposata” perché il Signore si compiacerà di te e la tua terra avrà uno sposo. Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo creatore, come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te” (Is. 62, 5). L’antifona al “Magnificat” dei Primi Vespri del Natale canta: “Quando sorgerà il sole, vedrete il Re dei re: come lo sposo dalla stanza nuziale egli viene dal Padre”. E ancora “Tu, bambino, figlio di Dio, hai rinnovato la nostra vita: come sposo dalla stanza nuziale sei uscito dal grembo di Maria”.[9] Nel secondo anno dell’Ufficio di lettura del tempo natalizio si legge il “Cantico dei cantici”, nel quale è simboleggiata l’unione di Dio e dell’uomo in Cristo. “Allora, infatti, Dio Padre celebrò le nozze di Dio suo Figlio, quando nel grembo della Vergine lo congiunse alla natura umana, allorchè volle che colui che era Dio prima dei secoli, diventasse uomo alla fine dei secoli”.[10]

4. Cristo è la “luce del mondo”

Il tema della “luce” è centrale nella liturgia natalizia. Già nella tradizione ebraica il 25 del mese di Kasleu (dicembre) si celebrava la festa della Dedicazione del tempio, dopo la profanazione di Antioco Epifane, festa molto popolare con l’accensione di molti lumi e per questo detta “festa delle luci” ( 1 Mac 4,36; Gv 10, 22 ) Possiamo ritenere questa solenne festa ebraica una profezia del Natale; infatti, con la nascita di Cristo viene riconsacrato il tempio di Dio, cioè l’uomo e il mondo, profanati dal peccato.[11] Anche il “Martirologio” del 25 dicembre, annunziando il Natale, canta: “…Gesù Cristo, eterno Dio e Figlio dell’eterno Padre, volendo consacrare il mondo colla sua piissima venuta… nacque da Maria Vergine…”[12] Il tema della luce emerge in particolare nella liturgia natalizia, sia in Isaia 9, 1: “Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse”, e soprattutto nel Prologo del vangelo di s.Giovanni (Gv 1, 9. 5): “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta.” Alle espressioni bibliche fanno eco quelle liturgiche. Il Prefazio I del Natale canta: “Nel mistero del Verbo incarnato è apparsa agli occhi della nostra mente la luce nuova del tuo fulgore, perché conoscendo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all’amore delle realtà invisibili”. E il versetto alleluiatico della messa del giorno di Natale esprime l’esultanza della Chiesa: “Un giorno santo è spuntato per noi: venite tutti ad adorare il Signore; oggi una splendida luce è discesa sulla terra”. E’ particolarmente nell’Epifania che il simbolismo di Cristo-luce raggiunge l’apice: “Alzati, rivestiti di luce, perchè viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te” (Is 60,1 ). Perciò la liturgia raccomanda che in questo giorno “siano opportunamente moltiplicate le luci”.[13] In oriente l’Epifania è pure chiamata “festa dei lumi”.[14] Infine rimane classica l’immagine di Cristo “sole che sorge”, offerta dal cantico evangelico del “Benedictus”: “Verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge, per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte”. (Lc 1, 78-79) Questa immagine ha motivato tutta una simbologia relativa al solstizio d’inverno[15], tempo nel quale si celebra il Natale. San Bernardo nel discorso 1° per l’Avvento descrive in questo modo la situazione del mondo: “Scendeva la sera e il giorno già volgeva alla fine: il Sole di giustizia era quasi scomparso, tanto che il suo splendore e il suo calore erano molto deboli sulla terra. La luce della conoscenza di Dio era esigua e, per il dilagare dell’iniquità, il fervore della carità si era raffreddato. Nessun angelo più appariva, non un profeta che parlasse: desistevano come vinti dalla delusione, per l’eccessiva durezza d’animo e caparbietà degli uomini. ‘Allora ho detto:’, parola del Figlio, ‘Ecco io vengo…” (Sl 39, 8).[16] Pietro di Blois afferma: “Alla prima (venuta del Signore) applichiamo le parole di verità del Vangelo: ‘A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo!’ (Mt 25, 6). Per mezzanotte intendo il lento decorso delle ore notturne nel pieno silenzio. Era notte per i Giudei, ai quali la malizia aveva velato gli occhi perché non vedessero. Allo stesso modo anche il popolo dei pagani camminava nelle tenebre. Fu rotto il silenzio della notte. Venne colui che porta la luce nella profondità delle tenebre: fugò la notte e fece giorno”.[17]

E san Gregorio Nisseno nella sua omelia sulla Natività: “In questo giorno che il Signore ha fatto, le tenebre cominciano a diminuire e, aumentando la luce, la notte è ricacciata al di là delle sue frontiere. Certo, fratelli, ciò non accade né per caso né per volere estraneo, il giorno stesso in cui risplende Colui che è la vita divina nell’umanità. E’ la natura che, sotto questo simbolo, rivela un arcano a quelli il cui occhio è penetrante, e i quali sono capaci di comprendere la circostanza della venuta del Signore. Mi sembra di sentirlo dire: O uomo, sappi che sotto le cose che tu vedi ti vengono rivelati misteri nascosti. La notte, come hai visto, era giunta alla sua più lunga durata, e d’improvviso s’arresta. Pensa alla notte funesta del peccato che era giunta al colmo per l’unione di tutti gli artifici colpevoli: oggi stesso il suo corso è stroncato. A partire da questo giorno, essa è ridotta, e presto sarà annullata. Guarda ora i raggi del sole più vivi, l’astro stesso più alto nel cielo, e contempla insieme la vera luce del Vangelo che si leva sull’universo intero”. [18] E sant’Agostino: “Ecco perché Egli è nato in questo giorno, che è il più corto di tutti, ma, a cominciare dal quale, i giorni incominciano ad allungarsi. Lui che s’è abbassato per elevarci, ha scelto il giorno più corto, ma, a incominciare dal quale, la luce cresce”. [19] Secondo san Girolamo, perfino la natura, con il suo solstizio invernale, è a favore di tale consuetudine romana (la festa del Natale il 25 dicembre): “La creazione conferma il nostro dire, l’universo attesta la verità delle nostre parole. Fino q questo giorno aumenta la lunghezza del buio; a partire da questo giorno, le tenebre diminuiscono. Aumenta la luce, si accorciano le notti. Il giorno cresce, cala l’errore affinché sorga la verità. Infatti oggi ci è nato il sole della giustizia”.[20] Anche i pagani in qualche modo annunziarono il grande mistero natalizio con la festa del solstizio invernale, che celebrava il “sole vittorioso”, profezia del vero Sole invincibile, Cristo, luce del mondo.[21]

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[1] JUNGMANN, La liturgia della Chiesa, p. 263-264: “Sotto il profilo teologico, la differenza delle due solennità nella liturgia romana può essere così delineata: il mistero dell’incarnazione rimane per entrambe l’unico tema; ma col Natale viene considerata specialmente la degnazione del Figlio di Dio, fattosi un comune bambino; con l’Epifania si volge lo sguardo specialmente alla grandezza divina dello stesso bambino, che già s’irradia su tutto il mondo.”

[2] RATZINGER, J. Introduzione allo spirito della liturgia, ed. San Paolo, 2001, p. 104: “Le vecchie ipotesi, secondo cui il 25 dicembre era stato scelto a Roma in polemica con il culto mitraico o anche come risposta cristiana al culto del sole invitto, che era stato promosso dagli imperatori romani nel corso del terzo secolo come tentativo di stabilire una nuova religione di stato, oggi non paiono più sostenibili. Decisivo fu piuttosto lo stretto rapporto tra creazione e croce, tra creazione e Concepimento di Cristo, nella misura in cui a partire dall’ ‘ora di Gesù’ queste date venivano a coinvolgere il cosmo, lo interpretavano come pre-figurazione e pre-annunzio di Cristo, il primogenito della creazione (Col 1, 15), di cui parla la creazione stessa e attraverso il quale viene decifrato il suo tacito messaggio. Dal primogenito della creazione, che ora è entrato nella storia, il cosmo riceve il suo vero senso… A partire da questo contenuto originariamente cosmico della data del Concepimento e della Nascita poteva essere anche ripresa la sfida del culto solare e inserita positivamente nella teologia della festa.” FEDERICI, T., Dalla rivista 30 giorni, 1 gennaio 1998: “ ‘il 25 dicembre è una data storica’. Lo ha ribadito il professor Tommaso Federici, docente alla Pontificia Università Urbaniana e consultore in due Congregazioni vaticane, in un articolo apparso sull’ Osservatore Romano del 24 dicembre scorso. ‘Si spiega il 25 dicembre’ scrive Federici ‘come cristianizzazione di una festa pagana, il natale del Sole invitto; oppure come equilibrio simmetrico, estetico tra il solstizio d’inverno (21 o 22 dicembre) e l’equinozio di primavera (23 o 24 marzo). Ma una scoperta nuova di pochi anni or sono ha portato luce definitiva sulla data del Natale del Signore. Già lo studioso israeliano Shemaryahu Talmon nel 1958 aveva pubblicato uno studio approfondito sul calendario della setta di Qumran, ricostruendo senza dubbi l’ordine dei turni sacerdotali nel tempio di Gerusalemme (cfr. 1 Cr 24, 7-18) ai tempi del Nuovo Testamento. Qui la famiglia di Abijah, a cui apparteneva Zaccaria, padre del Prodromo e Precursore Giovanni (Lc 1, 5), doveva officiare 2 volte l’anno, i giorni 8-14, del mese terzo, e i giorni 24-30 dell’ottavo mese. Quest’ultima cadeva circa alla fine di settembre. Non è senza senso che il calendario bizantino festeggi ‘la concezione di Giovanni’ il 23 settembre, e la sua nascita 9 mesi dopo, il 24 giugno. I ‘sei mesi’ dopo dell’Annunciazione, fissata come festa liturgica il 25 marzo, precedendo di 3 mesi la nascita del Precursore, preludono ai 9 mesi, che cadono in dicembre: il 25 dicembre è data storica”. * Anche il nuovo Martirologio Romano (Editio typica 2001) ha recepito la Commemorazione dei santi Gioacchino ed Anna il 23 settembre.

[3] GUERANGER, vol. I, p. 238: “Il giorno dell’Epifania del Signore è dunque veramente un gran giorno; e la letizia nella quale ci ha immersi la natività del divino Bambino deve effondersi nuovamente in questa solennità. Infatti, questo secondo irradiamento della Festa del Natale ci mostra la gloria del Verbo incarnato in un nuovo splendore; e senza farci perdere di vista le bellezze ineffabili del divino Bambino, manifesta in tutta la luce della sua divinità il Salvatore che ci è apparso nel suo amore. Non sono più soltanto i pastori che son chiamati dagli Angeli a riconoscere il Verbo fatto carne, ma è il genere umano, è tutta la natura che la voce di Dio stesso chiama ad adorarlo e ad ascoltarlo”.

[4] Anamnesis, vol. VI, p. 188.

[5] GUERANGER, vol. I, p. 239: “La ragione della preferenza della Chiesa Romana per il mistero della Vocazione dei Gentili deriva dal fatto che questo grande mistero è sommamente glorioso a Roma che, da capitale della gentilità quale era stata fino allora, è diventata la capitale della Chiesa cristiana e dell’umanità, per la vocazione celeste che chiama oggi tutti i popoli alla mirabile luce della fede, nella persona dei Magi”.

[6] Anamnesis, vol. VI, p. 188; MESALE MARIANO, Prefazio della 6° Messa: “Sospinti dalla tua grazia, alla luce della stella, i magi d’Oriente, primi virgulti della Chiesa dalle genti, trovano nell’umile dimora il Bambino, con la Madre, lo adorano Dio, lo proclamano Re, lo confessano
Redentore”.

[7] MRI, PE IV.

[8] LOM, p. 92.

[9] LO, 2 genn., ant. Magn.

[10] UNIONE MONASTICA ITALIANA PER LA LITURGIA, L’Ora dell’Ascolto, Torino, ed. Marietti, 1977, vol.1°, p. X.

[11] RATZINGER, J., Immagini di speranza, Le feste cristiane in compagnia del Papa, ed. San Paolo, 2005, p. 10: “Il primo ad affermare con certezza che Gesù nacque il 25 dicembre è stato Ippolito di Roma nel suo commento a Daniele, scritto verso il 204; Bo Reicke, già professore di esegesi a Basilea, ha inoltre richiamato l’attenzione sul calendario festivo, secondo il quale nel vangelo di Luca i racconti della nascita el Battista e della nascita di Gesù sono legati fra loro. Se ne potrebbe dedurre che Luca presuppone già nel suo vangelo la data del 25 dicembre come giorno della nascita di Gesù. Allora in quel giorno si celebrava la festa della dedicazione del tempio istituita da Giuda Maccabeo nel 164 a. C. La data della nascita di Gesù verrebbe allora a simbolizzare che con lui, apparso come luce di Dio nella notte invernale, si realizzava veramente la consacrazione del tempio – l’avvento di Dio su questa terra”.

[12] Martirologio Romano, Pubblicato per ordine del Sommo Pontefice Gregorio XIII riveduto per autorità di Urbano VIII e Clemente X aumentato e corretto nel MDCCXLIX da Benedetto XIV, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, MDCCCCLV, 25 dic., Natale del Signore, p. 333.

[13] Caeremoniale Episcoporum ex decreto sacrosancti oecumenici Concilii Vaticani II instauratum auctoritate Ioannis Pauli PP. II promulgatum, Editio typica, Typis Polyglottis Vaticanis, MCMLXXXV, n. 240; Anamnesis, vol. VI, p. 185.

[14] GUERANGER, vol. I, p. 237: “Gli Orientali chiamano ancora questa solennità i santi Lumi, a motivo del Battesimo che si conferiva un tempo in questo giorno in memoria del Battesimo di Gesù Cristo nel Giordano: E’ noto come il Battesimo sia chiamato dai Padri illuminazione, e quelli che l’hanno ricevuto illuminati”. RIGHETTI, vol. II, p. 103: “In questo giorno erano battezzati i catecumeni, donde i nomi di Festa delle Luci, dies baptismalis, datogli dai Padri greci”.

[15] GUERANGER, vol 1, p. 124-125: “Gesù Cristo nostro Salvatore, che è la luce del mondo (Gv 8, 12), è nato al momento in cui la notte dell’idolatria e del delitto era più profonda in questo mondo. E il giorno della Natività, il 25 dicembre, è precisamente quello in cui il sole materiale, nella sua lotta con le ombre, vicino a spegnersi, si rianima d’un tratto e prepara il suo trionfo. Nell’Avvento abbiamo notato, con i santi Padri, la diminuzione della luce fisica come il triste emblema di quei giorni di attesa universale; ci siamo rivolti con la Chiesa verso il divino Oriente, verso il Sole di Giustizia, il solo che possa sottrarci agli orrori della morte del corpo e dell’anima. Dio ci ha ascoltati; e nel giorno stesso del solstizio d’inverno, famoso per i terrori e i gaudi del mondo antico, ci da insieme la luce materiale e la fiaccola delle intelligenze”. p. 125-126: “In un sermone sul Natale, s. Agostino ci da la chiave d’una frase misteriosa di san Giovanni Battista, che conferma meravigliosamente il pensiero tradizionale della Chiesa. L’ammirabile Precursore aveva detto, parlando di Cristo: Bisogna che egli cresca e che io diminuisca (Gv 3, 30). Sentenza profetica la quale, nel senso letterale, significa che la missione di s. Giovanni Battista volgeva al termine dal momento che il Salvatore stesso entrava nell’esercizio della sua. Ma possiamo vedervi anche, con sant’Agostino, un secondo mistero: ‘ Giovanni è venuto in questo mondo nel tempo in cui i giorni cominciano ad accorciarsi; Cristo è nato nel momento in cui i giorni cominciano ad allungarsi’ (Discorso in Natale Domini, XI). Cosicché tutto è mistico: sia il levarsi dell’astro del Precursore al solstizio d’estate, sia l’apparizione del Sole divino nella stagione delle ombre”.

[16] L’Ora dell’Ascolto, vol 1°, p. 54.

[17] L’Ora dell’Ascolto, vol 1°, p. 29.

[18] GUERANGER, vol. I, p. 125

[19] NOE’, V., Andiamo a Betlemme, ed. Messaggero, Padova, 1980, p. 60

[20] NOCILLI, A., P., N., E’ nato per noi il Signore, Storia, teologia, folclore del Natale, Padova, ed. Messaggero, 1983, p.29.

[21] GUERANGER, vol. 1°, p. 301-302: “Consideriamo la situazione della natura nella stagione dell’anno alla quale siamo giunti. La terra si è spogliata dell’usata veste, i fiori sono morti, i frutti non pendono più dagli alberi, il fogliame dei boschi è disperso dai venti, e il freddo colpisce ogni essere vivente; si direbbe che la morte è alle porte. Se almeno il sole conservasse il suo splendore, e tracciasse ancora nell’aria il suo corso radioso! Ma, di giorno in giorno, anch’egli accorcia il suo cammino. Dopo una lunga notte, gli uomini lo scorgono per vederlo presto ricadere al tramonto, nell’ora stessa in cui poco tempo fa i suoi raggi brillavano ancora di vivo splendore, ed ogni giorno che passa vede accelerarsi la rapida invasione delle tenebre. E’ forse il mondo destinato a veder spegnersi per sempre la sua fiaccola? E’ forse il genere umano condannato a finire nella notte? I pagani lo temerono, e per questo, contando con spavento i giorni di questa terribile lotta della luce e delle tenebre, consacrarono al culto del Sole il venticinquesimo giorno di dicembre, che era il solstizio d’inverno, giorno dopo il quale l’astro, sfuggendo ai legami che lo trattenevano, comincia a risalire e riprende gradualmente quella linea trionfante con la quale poco tempo fa divideva il cielo in due parti. Noi cristiani, illuminati dagli splendori della fede, non ci arresteremo a queste umane paure: cerchiamo un sole al confronto del quale il sole invisibile non è che tenebre. Con esso, potremo sfidare tutte le ombre materiali; senza di esso, la luce che crederemmo di avere non fa altro che sviarci e perderci. O Gesù, luce vera che illumini ogni uomo che viene in questo mondo, tu hai scelto, per nascere in mezzo a noi, l’istante in cui il sole visibile è vicino a spegnersi, per farci comprendere, con questa mirabile immagine, lo stato in cui eravamo ridotti quando venisti a salvarci e illuminarci”. NOCILLI, A., P., N., E’ nato per noi il Signore, Storia, teologia, folclore del Natale, Padova, ed. Messaggero, 1983, p.22-36.

In Zenit

Como ir à Missa e não perder a Fé?

I SEGNI ESTERNI DI DEVOZIONE DEL CELEBRANTE


Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi



di don Nicola Bux*

ROMA, mercoledì, 15 dicembre 2010 (ZENIT.org).- La fede nella presenza del Signore nella Chiesa, in specie quella eucaristica, il sacerdote la esprime esemplarmente con l’adorazione che si documenta nella riverenza profonda delle genuflessioni durante la Santa Messa e fuori di essa. Nella liturgia postconciliare sono ridotte al minimo: la ragione addotta è la sobrietà; il risultato è che son diventate rare, oppure sono appena abbozzate. Siamo diventati avari di gesti verso il Signore; però elogiamo ebrei e musulmani per il loro fervore nel modo di pregare.

La genuflessione più delle parole manifesta l’umiltà del sacerdote, che sa di essere solo un ministro, e la sua dignità per il potere di rendere presente il Signore nel sacramento. Ma vi sono altri segni di devozione. Le mani levate in alto dal sacerdote stanno ad indicare la supplica del povero e dell’umile: «Ti preghiamo umilmente», si sottolinea nelle preghiere eucaristiche II e III del messale di Paolo VI. L’Ordinamento Generale del Messale Romano (OGMR) stabilisce che il sacerdote, «quando celebra l’Eucaristia, deve servire Dio e il popolo con dignità e umiltà, e, nel modo di comportarsi e di pronunziare le parole divine, deve far percepire ai fedeli la presenza viva di Cristo» (n. 93). L’umiltà dell’atteggiamento e della parola è consona a Cristo stesso, mite e umile di cuore. Egli deve crescere e io diminuire.

Nell’incedere all’altare, il sacerdote deve essere umile, non ostentato, senza indulgere nello sguardo a destra e a manca, quasi a cercare l’applauso. Invece, deve guardare a Gesù Cristo crocifisso e presente nel tabernacolo: a Lui si fa l’inchino e la genuflessione; poi alle immagini sacre esposte nell’abside dietro o ai lati dell’altare, la Vergine, il santo titolare, gli altri santi. Sono lì per essere contemplate o solo per decorare? È in sintesi la presenza divina. Segue il bacio riverente dell’altare ed eventualmente l’incensazione; il secondo atto è il segno di croce e il saluto sobrio ai fedeli; il terzo è l’atto penitenziale, da compiere profondamente e con gli occhi bassi, mentre i fedeli potrebbero inginocchiarsi – perché no? – come nella forma straordinaria, imitando il pubblicano gradito al Signore.

Il sacerdote celebrante non alzerà la voce e manterrà un tono chiaro per l’omelia ma sommesso e supplice per le preghiere, solenne se in canto. Si preparerà inchinato «in spirito di umiltà e con animo contrito» alla preghiera eucaristica o anafora: è la supplica per definizione e va recitata in modo che la voce corrisponda al genere del testo (cf. OGMR 38); il celebrante potrebbe pronunziare con tono più alto le parole iniziali dei singoli paragrafi, e recitare il resto in tono sommesso per permettere ai fedeli di seguire e raccogliersi nell’intimo del cuore. Toccherà i santi doni con stupore, e purificherà i vasi sacri con calma e attenzione, secondo il richiamo di tanti padri e santi. Si inchinerà sul pane e sul calice nel pronunziare le parole di Cristo consacrante e nell’invocazione allo Spirito Santo (epiclesi). Li eleverà separatamente fissando in essi lo sguardo in adorazione e poi abbassandolo in meditazione. Si inginocchierà due volte in adorazione solenne. Continuerà con raccoglimento e tono orante l’anafora fino alla dossologia, elevando i santi doni in offerta al Padre. Il Padre nostro lo reciterà con le mani alzate e non tenendo per mano altri, perché ciò è proprio del rito della pace; il sacerdote non lascerà il Sacramento sull’altare per dare la pace fuori del presbiterio, invece frazionerà l’Ostia in modo solenne e visibile, quindi genufletterà davanti all’Eucaristia e pregherà in silenzio chiedendo ancora di essere liberato da ogni indegnità per non mangiare e bere la propria condanna e di essere custodito per la vita eterna dal santo Corpo e prezioso Sangue di Cristo; poi presenterà ai fedeli l’Ostia per la comunione, supplicando Domine non sum dignus, e inchinato si comunicherà per primo. Così sarà di esempio ai fedeli.

Dopo la comunione, il silenzio per il ringraziamento si può fare in piedi, meglio che seduti, in segno di rispetto, oppure inginocchiati, se è possibile, come ha fatto fino all’ultimo Giovanni Paolo II, quando celebrava nella sua cappella privata, col capo inchinato e le mani congiunte, al fine di chiedere che il dono ricevuto ci sia rimedio per la vita eterna, come nella formula che accompagna la purificazione dei vasi sacri; molti fedeli lo fanno e ci sono di esempio. La patena o coppa e il calice (vasi che sono sacri per ciò che contengono) per quale ragione non dovrebbero essere «lodevolmente» ricoperti da un velo (OGMR 118; cf. 183) in segno di rispetto – e anche per ragioni d’igiene – come fanno gli orientali? Il sacerdote, dopo il saluto e la benedizione finale, salendo all’altare per baciarlo, ancora alzerà gli occhi al crocifisso e si inchinerà, e genufletterà al tabernacolo. Quindi tornerà in sacristia, raccolto, senza dissipare con sguardi e parole la grazia del mistero celebrato.

Così i fedeli saranno aiutati a comprendere i santi segni della liturgia, che è una cosa seria, in cui tutto ha un senso per l’incontro col mistero presente di Dio (per approfondire: cf. il mio recente Come andare a Messa e non perdere la fede, Piemme 2010).

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*Don Nicola Bux è professore di Liturgia orientale a Bari e consultore delle Congregazioni per la Dottrina della Fede, per le Cause dei Santi, per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti; nonché dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.