“Il presbitero e l’arte di celebrare-presiedere”
por D. Felice di Molfetta
Presidente da Comissão Episcopal da Liturgia da Conferência Episcopal Italiana
XIII Convegno Liturgico per Seminaristi
Roma, 28-30 dicembre 2008
Istituto Maria SS. Bambina - Roma 29 dicembre 2008


A mo’ di introduzione Esattamente venti anni fa, in un convegno di aggiornamento per i vescovi sulla liturgia, uno dei relatori, A. Santantoni, parlando dell’Arte del celebrare, presentò una galleria di modelli e di stili di celebrante, che danno controtestimonianza e grave ostacolo all’efficacia della celebrazione. Egli descrisse il modello dell’intimistico, che pensa solo a metterci una grande devozione personale, trascurando i circostanti; lo ieratico, per il quale ogni più modesta celebrazione diventa un pontificale; il rubricistico, preoccupato di uno stile formalmente impeccabile, che esegue le prescrizioni rubricali alla lettera e respinge anche le alternative concesse dagli stessi libri liturgici; l’impassibile, il tuttofare: questi è il presidente che fa tutto: prega, legge, intona, accende i ceri, va a prendere i vasi sacri, fa funzionare - là dove c’è - il musicatik, va ad aggiustare il microfono sulla bocca del lettore, ecc.

C’è poi lo sportivo, che va all’altare come al campeggio: scarpe da tennis, maglione dolcevita, camicia a scacchi in bella vista sotto al camice, movimenti rapidi su e giù per i gradini dell’altare e della sede; l’esibizionista, per il quale la liturgia diventa una passerella delle diverse vanità; altri tipi sono il demagogico-cameratistico, il familiarpopolare e l’irrequieto. Quest’ultimo è colui che ritiene di dover inventare sempre qualcosa di nuovo per evitare la noia e l’assuefazione. Le liturgie che ne vengono fuori sono spesso una girandola di innovazioni e talvolta di improvvisazione che finiscono per disorientare i fedeli, anche i meglio disposti.Mi direte: esagerato! Certo, potrebbe anche essere esagerato, frutto di un genere letterario al fine di attirare l’attenzione dell’uditorio. Non possiamo però dimenticare la rilevanza che la liturgia riveste come “luogo educativo e rivelativo” sì da doverne far emergere la dignità e l’orientamento verso l’edificazione del regno. Sono i Vescovi che, mentre ce lo ricordano in Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (n. 49), aggiungono: “La celebrazione eucaristica chiede molto al sacerdote che presiede l’assemblea e va sostenuta con una robusta formazione liturgica dei fedeli. Serve una liturgia insieme seria, semplice e bella, che sia veicolo del mistero, rimanendo al tempo stesso intelligibile, capace di narrare la perenne alleanza di Dio con gli uomini”. È su questo fondale esperienziale e magisteriale che vorrei articolare il mio intervento su “Il presbitero e l’arte del celebrarepresiedere”.

Non c’è dubbio. Delicato e impegnativo è il compito di presiedere la comunità cristiana e l’azione liturgica da cui essa nasce. Tant’è che è da tempo e a diversi livelli che si chiede di acquisire e far acquisire uno stile celebrativo. In tal senso, ineludibile punto di riferimento è l’Esortazione Apostolica post sinodale Sacramentum Caritatis del Santo Padre Benedetto XVI in cui si afferma:“Nei lavori sinodali è stata più volte raccomandata la necessità di superare ogni possibile separazione tra l’ars celebrandi, cioè l’arte di celebrare rettamente, e la partecipazione piena, attiva e fruttuosa di tutti i fedeli. In effetti, il primo modo con cui si favorisce la partecipazione del Popolo di Dio al Rito sacro è la celebrazione adeguata del Rito stesso. L’ars celebrandi è la migliore condizione per l’actuosa participatio. L’ars celebrandi scaturisce dall’obbedienza fedelealle norme liturgiche nella loro completezza, poiché è proprio questo modo di celebrare ad assicurare da duemila anni la vita di fede di tutti i credenti, i quali sono chiamati a vivere la celebrazione in quanto Popolo di Dio, sacerdozio regale, nazione santa (cfr. 1 Pt 2,4-5.9)”.

La liturgia, con il suo universo celebrativo, ha sempre esercitato una strana attrattiva sui suoi testimoni più discreti, più casuali, quelli “di fuori” o di quelli che stanno alle soglie della chiesa, soprattutto se la si considera sotto il profilo estetico. Il canto gregoriano, per esempio, ben eseguito risulta immediatamente avvincente per ascoltatori che abbiano una certa cultura e sensibilità, ma a volte anche per i più incolti.Nella valutazione di una “bella liturgia”, in effetti, intervengono diversi criteri - i cosiddetti criteri dei “consumatori” - che dipendono dalla sfera emotiva, istintiva, da impulsi egocentrici. Si è contenti quando si parla molto, si canta molto, o si vedono un sacco di pizzi e merletti.

Quella che nei primi secoli del cristianesimo veniva chiamata opus Dei, tende a diventare un genere di consumo tra tanti altri: si strumentalizza, si condisce con il proprio gusto individuale o individualista, ciò che nel suo fondamento è accoglienza, gratuità, atto di adesione. In una parola: si cerca il piacere nelle cose di Dio, contraddicendo il dettato conciliare secondo il quale i riti devono risplendere per nobile semplicità; essere chiari per brevità, evitando inutili ripetizioni; devono essere inoltre adatti alla capacità di comprensione senza ricorrere all’uso di molte spiegazioni e didascalie. In tal senso, l’arte del celebrare consisterà nel celebrare con arte, superando l’ambito dell’arbitrario e il caos del soggettivismo, sempre incombente in colui che presiede.Volendo essenzializzare in che cosa consiste quella che chiamiamo arte del celebrare, direi che essa consiste “nel mettere in buon ordine gli elementi visibili, udibili, toccabili, gustabili, odorabili che costituiscono la celebrazione e permettono all’invisibile della fede e della grazia di essere manifestato. L’arte del celebrare consisterà nel mettere in buon ordine gli spostamenti, gli atteggiamenti e le posture, le parole e i gesti, le letture e i canti, e ancora: nella capacità di intervenire nei tempi e negli spazi adeguati, nel tono giusto della comunicazione, in una buona coerenza con ciò che precede e ciò che segue, in una buona corrispondenza tra ciò che viene fatto e ciò che viene detto”. Paolo, nel quattordicesimo capitolo della Prima Lettera ai Corinzi, là dove regola la manifestazione comunitaria dei carismi alla scopo di edificare (= l’oikodomé - 14,12), enuncia la regola d’oro della prassi liturgica: tutto avvenga decorosamente (= eusehemónos) e con ordine (= katà táxin) (1 Cor 14,40).Edificazione: dunque architettura, dunque ordine. Sembra essere questo il programma dei Padri; infatti, se c’è un aspetto nel quale i Padri insistono è proprio questo: táxis, eutaxía, cioè “ordine”, disciplina: parole queste che ricorrono di continuo nei loro scritti.Ordine e armonia: è questo che essi discernono in primo luogo nella liturgia; è questo l’elemento che lodano e raccomandano in quanto esso costituisce per i fedeli e l’assemblea santa una predicazione efficace. Riporto solo un riferimento, tratto dalle Costituzioni apostoliche: “Quando raduni la Chiesa - si riferisce al vescovo - devi esigere, come il pilota di una grande nave, che le assemblee si svolgano con grande disciplina…”; “In seguito avrà luogo il sacrificio; tutto il popolo starà in piedi e pregherà con calma. Una volta fatta l’oblazione, ogni gruppo separatamente comunicherà al corpo del Signore e al prezioso sangue, con ordine, rispetto e pietà (= en taxei metà aidoûs kai eulabeías), perché si accostano al corpo di un re”.

Ispirata da una fede riverente la liturgia, in quanto creatrice di un ordine, diventa luogo epifanico del mistero. Sicché, il compito di presiedere secondo l’ars celebrandi deve partire da solidi fondamenti teologici, ricordando che attraverso la celebrazione liturgica e l’insieme di gesti concreti che questa richiede, la Chiesa non fa altro che prolungare a attualizzare i gesti di Cristodella epifania della sua grazia salvifica e della sua mirabile filantropia.

I gesti di Gesù Cristo: ecco quello che deve trasparire dalle nostre celebrazioni. Paradossalmente parlando, “la liturgia è un bel gesto di Cristo che coordina a sé i nostri gesti”. Il compito di presiedere nasce pertanto dalla consacrazione come comunione vitale di tutto l’essere sacerdotale con Cristo e, quindi, dai compiti che Egli affida alla sua Chiesa e ai suoi ministri, come atto di partecipazione e di fiducia della sua stessa missione ricevuta dal Padre:“Consacrati da Dio, sono resi partecipi in modo speciale del sacerdozio di Cristo, nelle sacre celebrazioni agiscono come ministri di Colui che ininterrottamente esercita la sua funzione sacerdotale in favore nostro nella liturgia, per mezzo del suo Spirito”. Il ministro ordinato perciò chiamato a presiedere l’azione liturgica ha il compito di significare la dipendenza costitutiva della Chiesa da Cristo, unico mediatore tra Dio e gli uomini e di edificarlo ogni giorno nella comunione. Sicché, “quando celebra l’Eucaristia, deve servire Dio e il popolo con dignità e umiltà, e nel modo di comportarsi e di pronunziare le parole divine deve far sentire ai fedeli la presenza viva di Cristo”. Una liturgia presieduta con questo orientamento sarà bella nella misura in cui lascerà trasparire i gesti di Cristo. La bellezza non dipenderà dalle nostre aggiunte, decorazioni e ornamenti da noi apposti, perché essa è interamente dovuta al Signore; come tale non sarà legata al fasto e a ciò che è accessorio, ma austera e intensa. I gesti di Gesù sono belli perché gesti ordinari, capaci di mettere a contatto con le cose nella veritas rerum. Perciò sono gesti “pieni”, pieni di agápe salvifica, pieni di efficacia, grazie a un’impareggiabile intensità drammatica legata al memoriale dell’uno, unico, sempre identico mistero, quello dell’opus redemptionis.E se Gesù non “gesticola”, neanche noi dobbiamo “gesticolare”, rammentando che i gesti della nostra liturgia sono belli, perché sono gesti umani, gesti quotidiani, ordinari: “Fate questo”, Egli ci dice. E noi molto semplicemente lo facciamo seguendo l’ordinamento liturgico datoci dalla Chiesa.

Ma lo dovremmo fare con la stessa semplicità con cui lo ha fatto Lui. Gesù si è alzato per leggere, ha aperto il libro, ha preso del pane nelle sue mani, ha pronunciato la preghiera di benedizione, lo ha spezzato… Egli ha fatto tutto questo con calma, gravità, consapevolmente e con tutta la serietà della sua umanità reale, come facevano notare le folle: “ha fatto bene ogni cosa”. Sì, bene, kalôs!: In pienezza e bellezza di spirito, senza sbavature, senza elementi superflui.E se la liturgia è tutto lo spazio di cui Cristo, indissolubilmente unito alla Chiesa, ha bisogno per esprimersi; tutto il tempo che gli serve per raccontare la sua storia di amore senza limiti, allora la gestualità di colui che presiede nell’esercizio della liturgia, deve rigorosamente fare riferimento alla gestualità di Cristo, quale precipuo e imprescindibile obiettivo del nostro agire “in nomine Christi et Ecclesiae”. Dall’accolito al lettore, dal salmista al presbitero: tutti sono chiamati ad esercitare una funzione primariamente pastorale; cioè, condurre i fedeli attraverso il loro specifico servizio all’inserimento nel mistero pasquale.

Ciò deve indurci a una seria riflessione: nessuno di noi è lì, sull’altare, per presentare sé stesso, per gratificare una eventuale smania di esibizionismo: nessuno sarà lì, sull’altare per fare scenografia, teatro, farsa. “Presiedere” sarà pure un fatto tecnico. Ma è soprattutto far trasparire l’Invisibile. In tale senso, la sua arte non farà solo parte della categoria del senso estetico, bensì del senso estatico, generatore di gusto e gioia del celebrare, avendo un vivo senso del mistero che implica la capacità di lasciarsi stupire. E se la celebrazione liturgica non è una cosa da fare, ma una Persona da incontrare e far incontrare, allora i gesti che siamo chiamati a porre, dovrebbero essere finestre aperte sul Mistero.

Pertinenti sono le parole di Papa Benedetto XVI: “la bellezza dei riti non certamente mai abbastanza ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata, perché nulla è troppo bello per Dio che è la Bellezza infinita. Le nostre lingue terrene non potranno essere che un pallido riflesso della liturgia, che si celebra nella Gerusalemme del cielo, punto d’arrivo del nostro pellegrinaggio sulla terra. Possano tuttavia le nostre celebrazioni avvicinarsi ad essa il più possibile e farla pregustare!”.Impariamo dal sole, il quale è idem et alius. Ossia, è sempre lo stesso, ma sempre diverso. La celebrazione è sempre la stessa ma sempre diversa in base alla capacità che abbiamo di assumere il mistero, farlo nostro e per farlo rivivere dagli altri. Perciò, “spetta in primo luogo a chi presiede rendere ogni celebrazione una esperienza di fede che si comunica, di speranza che si conferma, di carità che si diffonde”,14 acquisendo una profonda umiltà, unitamente a una profonda spiritualità. Ciò permetterà di presiedere le azioni liturgiche con dignità, evitando ogni sciatteria, grossolanità, improvvisazione, in quanto siamo chiamati ad essere mediatori e interpreti di realtà superiori che non ci appartengono e per le quali dovremmo essere servi attenti e rispettosi. È quando ci si augura.

Cerignola, 24 dicembre 2008.

† Felice di Molfetta
Vescovo di Cerignola-Ascoli Satriano
Presidente della Commissione Episcopale
per la Liturgia/CEI
Presidente del CAL